La Regina che vinceva sempre
Un maestro di scacchi non cerca la mossa migliore: la vede”. Garry Kasparov
di Gigi Marchitelli
D4, d5; c4. Ecco, siamo esattamente dove volevamo essere, al gambetto di donna (The Queen’s Gambit, in italiano La regina degli scacchi), serie Netflix di grandissimo successo ma, prima di questo, romanzo (1983) di Walter Tevis. Dell’una e dell’altro parleremo questa settimana.

Partiamo dal libro, o, meglio, partiamo dall’autore del libro. Il nome Walter Tevis (1928-1984) vi dirà poco ed è stato anche poco prolifico come scrittore: solo sei romanzi e qualche racconto, perlopiù fantascienza. Tuttavia, quasi tutti i suoi libri sono diventati film di successo, a partire dal primo, Lo spaccone (The Hustler, 1959, film nel 1961 con Paul Newman); L’uomo che cadde sulla Terra (The Man Who Fell to Earth, 1964, film nel 1976, esordio cinematografico per David Bowie); La regina degli scacchi (The Queen’s Gambit, 1983, miniserie Netflix in sette episodi nel 2020); e infine Il colore dei soldi, seguito di Lo spaccone (The Color of Money, 1984, film di Martin Scorsese del 1986 ancora con Paul Newman e con Tom Cruise). Nella sua breve vita (è morto a 56 anni per un cancro al fegato) c’è stata come si vede una lunga pausa produttiva.
In tutti i romanzi di Walter Tevis la componente autobiografica è fondamentale. Egli fu infatti un giocatore di biliardo, fu uno scacchista e, sotto certi aspetti, fu un alieno. Viene da sé che fu anche un alcolista. Dal suo punto di vista fu soprattutto un alcolista, o meglio una persona che per molto tempo annegò il proprio talento nell’alcol.
Fu dunque lo spaccone Fast Eddie, l’alieno Thomas Jerome Newton e la scacchista Beth Harmon. Ma fu soprattutto la scacchista Beth Harmon: non perché Beth beva più degli altri suoi personaggi ma perché solo apparentemente Beth è la protagonista di un libro sugli scacchi. In qualche misura lo stesso si potrebbe dire anche degli altri due libri. Solo in apparenza Lo spaccone è un libro sul biliardo e L’uomo che cadde sulla Terra un libro su uno scontro fra civiltà. In La regina degli scacchi, però, l’apparenza si mimetizza con maggiore efficacia nel vero nodo del romanzo. E il nodo è che i reali avversari di Beth Harmon non sono gli uomini che si trovano dall’altra parte della scacchiera ma le tante facce della ragazza stessa.
Le descrizioni delle partite giocate o studiate da Beth sono molto accurate (così come i sintomi e le sensazioni provocate dall’alcool e dai tranquillanti), frutto dell’esperienza di giocatore di Tevis ma anche dell’aiuto di numerosi Maestri e soprattutto del Maestro Bruce Pandolfini, grande insegnante di scacchi che, curiosamente, quarant’anni dopo, farà da consulente a Netflix (insieme al più grande di tutti, Garry Kasparov) per la realizzazione della serie.
In La regina degli scacchi si parla di un artista pop che acquista un disegno di Michelangelo, lo cancella con una gomma e infine espone il foglio tornato bianco come fosse un’opera d’arte. Tevis lavorò un po’ di immaginazione ma alluse a un fatto realmente accaduto negli anni Cinquanta del secolo scorso. Per ragioni facili da intuire il disegno cancellato non era di Michelangelo. Si trattava di Willem De Kooning, uno fra i maggiori esponenti dell’espressionismo astratto. Il senso è che qualunque talento può essere cancellato e riuscire ad esprimerlo è la più grande battaglia interiore di chiunque.
La scrittura di Tevis ricorda quella della sua quasi coetanea Flannery O’Connor, con cui ha condiviso una vita difficile. Una scrittura molto legata al reale, del tutto disinteressata ai labirinti della psicologia. Secondo la grande scrittrice non è possibile suscitare emozione con testi che trasudano emozione né suscitare pensieri riempiendo le pagine di considerazioni e riflessioni. A queste cose «bisogna dar corpo, creare un mondo dotato di peso e di spessore»: scrivere narrativa non è questione di «dire» cose, ma di farle «vedere» al lettore, di mostrarle: «mostri queste cose e non avrà bisogno di dirle» (show these things and you don’t have to say them). Date queste premesse, si capisce il successo cinematografico delle opere di Tevis.

Andiamo alla serie, ideata per Netflix da Allan Scott e da Scott Frank, che è anche regista e sceneggiatore, celebre per la sceneggiatura di Minority Report. Non farò il gioco delle differenze tra libro e serie (che pure ci sono, anche se in linea di massima la sceneggiatura segue la scrittura di Tevis fin nei dettagli) tranne che per una evenienza: nel romanzo Beth è decisamente bruttina mentre nella serie la protagonista è la fascinosa e travagliata Anya Taylor-Joy, caratterizzata dai capelli rossi e da un guardaroba anni ’60 che diventa via via più elegante (a proposito, potete ammirarlo con una visita virtuale al Brooklyn Museum).
La serie è organizzata in sette episodi di un’ora circa l’uno e posso dire che è assolutamente imperdibile. Ovviamente lo è per gli scacchisti – si riconoscono molte importanti partite del passato, anche se purtroppo tutte al maschile, come se non esistessero le sorelle Polgár o altre campionesse – ma anche per chi apprezza una recitazione intensa e credibile, una sceneggiatura ben oliata, ricostruzioni iconiche degli anni ’60 e una regia sicura e ispirata. Il tutto arricchendo il testo originale con preziosi dettagli che ben raccontano la parabola di solitudine, alienazione, speranza, emancipazione e risurrezione percorsa da Beth Harmon.
Nella storia non può mancare la contrapposizione con “i russi”, ma al di là dei prevedibili luoghi comuni, le scene del torneo di Mosca nel primo e nell’ultimo episodio li rappresentano in maniera molto nobile, quasi cavalleresca se confrontati con gli scacchisti statunitensi, come se la evidente passione per gli scacchi sia in grado di elevare l’anima di chiunque. La gentilezza degli avversari sulla scacchiera (tra i quali il campione del Mondo Vasily Borgov interpretato da un serio e sempre leale Marcin Dorociński) e soprattutto la simpatia degli appassionati russi per la “ragazzina terribile” costituiscono un potente messaggio sul valore degli scacchi come lingua universale e come metafora della competizione nel rispetto reciproco.
È commovente la folla che segue il torneo all’esterno del palazzo, sostando per ore al freddo e seguendo il gioco sulle scacchiere portatili, mentre un ragazzino esce ogni tanto a gridare le mosse eseguite dai campioni.
E nella meravigliosa scena finale, quando Beth, distesa in volto e raggiante, vestita completamente di bianco come la neve di Mosca, si mescola ai giocatori di scacchi del parco, in mezzo a una sconfinata distesa di scacchiere, e si siede davanti a un anonimo signore, quel: «Giochiamo?» che pronuncia in russo, è il segno più bello che – libera da tutti i suoi demoni – può finalmente giocare per il piacere del gioco e non per la compulsione a battere giocatori sempre più forti, divisa com’era, nella vita ormai alle sue spalle, tra una divorante ansia di riscatto e una quasi invincibile disperazione.

TRAMA
Stati Uniti, anni ’50. Elizabeth Harmon è rimasta orfana all’età di 9 anni e vive in orfanotrofio, dove il custode, il signor Shaibel, le insegna a giocare a scacchi, gioco in cui dimostra subito un talento straordinario. Adottata, dai signori Wheatley a Lexington, Kentucky, partecipa a tornei sempre più importanti, arrivando in pochi anni alla sfida al campione del mondo, a Mosca, nel 1968. Ma per farlo dovrà vincere i suoi mostri interiori, che si manifestano con la dipendenza dai farmaci e dall’alcool.
La regina degli scacchi di Scott Franck
Titolo originale: The Queen’s Gambit
Nazione: Stati Uniti
Anno: 2020
Genere: drammatico
Durata: sette puntate da 46-68′
Distribuito in Italia da Netflix.
Walter Tevis, La regina degli scacchi, traduzione di Angelica Cecchi, edizioni Mondadori, Milano, 2020, pp. 324, € 14
Antonius: Tu giochi a scacchi, non è vero?
Morte: Come lo sai?
Antonius: Lo so. L’ho visto nei quadri, lo dicono le leggende.
Morte: Sì, anche questo è vero, come è vero che non ho mai perduto un gioco.
Antonius: Forse anche la Morte può commettere un errore.
Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, 1956
“Non c’è solo la competizione. Gli scacchi possono essere meravigliosi”. Beth Harmon