Promemoria: domani, scalare l’Everest
Gli alpinisti descrivono la loro passione come un modo per sentirsi vivi. È l’umiltà dell’uomo di fronte alla natura. Scalare l’Everest è come affrontare un essere umano, un corpo a corpo che si spinge oltre ogni limite”.
di Gigi Marchitelli
Ancora una volta, un gioco di scatole cinesi o, se preferite, di matrioske. Non so quale sia la metafora esatta in Giappone.
Questa volta recensiamo un film d’animazione, che nasce da un manga, a sua volta ispirato a un monumentale (oltre 2000 pagine) romanzo. Ognuna di queste opere, però, si regge da sola e non vale neppure molto la pena fare la conta delle differenze: parleremo quindi (solo) del recente film d’animazione La vetta degli dei, del francese Patrick Imbert – che ha partecipato all’ultima edizione del Festival di Cannes – e lasceremo agli appassionati e ai curiosi approfondire (ne vale certamente la pena) l’omonimo manga di Jirô Taniguchi in cinque volumi, pubblicato fra il 2000 e il 2003 in Giappone, a sua volta adattamento del romanzo a puntate, pubblicato fra il 1994 e il 1997, dello scrittore Baku Yumemakura.
Un mistero apre il racconto, una questione irrisolta nella storia dell’alpinismo. Edmund Hillary e Tenzing Norgay nel 1953 sono i primi scalatori confermati ad aver scalato l’Everest, ma sono stati realmente i primi uomini a compiere questa impresa storica? Nel 1924 due alpinisti tentarono la difficile arrampicata, Andrew Irvine e George Mallory. Entrambi scomparvero nell’impresa lasciandoci nel dubbio: avevano raggiunto la vetta prima di morire? Chi trovasse la macchina fotografica Vestpocket Kodak di Mallory potrebbe scoprire la verità, ma l’oggetto non è mai stato trovato (i corpi degli alpinisti sì, nel 1999 e nel 2010, ma senza alcuna strumentazione). Almeno così pensava il reporter fotografico giapponese Fukamachi Makoto che, ben settant’anni dopo, s’imbatte nella famosa Vestpocket Kodak di Mallory che ora è nelle mani del misterioso alpinista Habu Jôji, uno scalatore emarginato che tutti ritenevano morto. Il giornalista decide d’indagare sul mistero in un viaggio che lo porterà, passo dopo passo, verso la vetta degli dei, l’Everest, proprio insieme a Habu Jôji.
La trama si svolge apparentemente come un giallo giornalistico, arricchito da una miriade di sottotrame, tutte connesse tra loro e che dunque andavano maneggiate con cura: la ricerca di Habu per l’Everest, l’indagina di Fukamachi sul mistero della macchina fotografica di Mallory, il passato tormentato di Habu e infine il mostrare l’Everest non solo come montagna ma come personaggio vivente della narrazione, il tutto senza dimenticare il percorso di crescita personale del reporter che, all’interno del viaggio, troverà risposte e domande ai suoi quesiti più personali e intimi. Come dichiarato anche degli sceneggiatori, Magali Pouzol, Patrick Imbert, Jean-Charles Ostorero, alla base di questa scrittura del film c’è l’intreccio tra il passato e il presente, caratteristica che faceva parte anche del manga.
Non solo la sceneggiatura riesce a elevare la storia ma anche l’animazione in 2D ha un ruolo di primissimo piano, grazie a un attento lavoro degli animatori che hanno reso con il loro lavoro personaggi e ambientazioni potenti attraverso un approccio realistico, ricalcando con precisione quello del manga di Taniguchi, il quale aveva lavorato (prima della sua morte) al fianco degli animatori e sceneggiatori aiutandoli a dare la giusta caratterizzazione visiva alla storia.
Ma questo film si erge oltre il senso visivo e tocca vette tendenti alla filosofia dell’alpinismo, indagando la passione degli uomini per le scalate, la libertà e la forza che ogni alpinista vive: “Non puoi impedire agli altri di fare ciò che vogliono, anche se non ha senso, anche se è pericoloso”.
In La vetta degli dei si mescolano più anime che convergono tutte a formare un insieme unico. C’è uno spirito emozionante, contemplativo ma allo stesso tempo trascinante, che segna l’incedere delle vicende. Esprime una capacità evocativa incredibile in immagini che ritraggono paesaggi naturali dalla bellezza stordente, con la forza credibile di un tratto minimalista, realistico. Le scalate, lunghe sequenze visivamente potenti, spesso prive o quasi di conversazioni, capaci di creare una forte tensione e rimetterci al nostro posto, schiacciati dalla potenza della montagna. E trova il suo cuore in un racconto umano, commovente, capace di rappresentare la gioia, la sofferenza, lo stupore, il senso di meraviglia che ogni vero alpinista si porta dentro.
Il finale della pellicola tocca vette spirituali quando Habu si trova dinanzi alla vastità del creato, avvolto da una solitudine, elemento che fa parte della stessa natura umana e che alla fine diviene metafora e simbolo dell’umanità stessa e del carattere dell’alpinista. Sia per questo “rude” alpinista dal cuore tenero, sia per il reporter, sfidare l’Everest non è solo una vicenda sportiva ma coincide con una ricerca interiore, portandoli verso una nuova dimensione e a una maggiore consapevolezza di se.

La vetta degli dei, di Patrick Imbert
Titolo originale: Le sommet des dieux
Sceneggiatura: Magali Pouzol, Patrick Imbert, Jean-Charles Ostorero
Nazione: Francia, Lussemburgo
Anno: 2021
Genere: animazione, drammatico, sportivo
Durata: 95′
Disponibile in Italia su Netflix
L’Everest è la grande avventura della prima metà del XX secolo, tutti attendevano che qualcuno realizzasse questa impresa fino al 1953. Da allora quasi 5.800 alpinisti l’hanno scalato con successo ma 300 di loro hanno perso la vita nel tentativo. Molti dei loro corpi sono ancora lungo il percorso che li avrebbe condotti verso la vetta. Questo fatto ha definito in modo eroico il confronto tra l’uomo e la montagna, grazie anche a personaggi come George Mallory.