Everest, due imprese a confronto
Spostiamoci in alto, molto più in alto, e proviamo a fare un esperimento: due punti di vista diversi per un’incredibile impresa, all’estremo delle possibilità umane.
di Gigi Marchitelli
Dove vivevo da ragazzo c’è una montagna che nel Medioevo era considerata la più alta del mondo. Non è altissima, qualcosa più di 3.500 metri, ma s’innalza sulla valle sottostante come una piramide di tre chilometri e tanto bastava all’epoca. Un mercante di Asti, Bonifacio Roero o Rotario, per voto, la scalò nel 1358 lasciando sulla cima un trittico in ottone dorato dedicato alla Madonna, realizzato da un artigiano di Bruges, nelle Fiandre. È la prima scalata alpinistica documentata nella storia.
Naturalmente, però, il Rocciamelone non è nemmeno lontanamente il monte più alto del mondo.
Nella seconda metà del XIX secolo scoppiò un’epidemia di misurazioni, classificazioni, collezioni ed esplorazioni di quanto era rimasto da esplorare. Fu allora che gli inglesi del Great Trigonometric Survey valutarono l’altezza dell’Everest, una montagna sul confine tra Nepal e Tibet a 29.002 piedi, ossia quasi 8.840 metri, solo 8 metri meno dell’attuale quota ufficiale. Era la massima altezza misurabile sulla Terra e fu allora che battezzarono la montagna “Everest”, in onore di un ex capo del Survey, George Everest che, da buon geografo, avrebbe preferito che la montagna mantenesse il nome locale: Chomolungma, “madre dell’universo”. Ma tant’è, l’imperialismo britannico l’ebbe vinta. E da quel momento gli inglesi considerarono l’Everest la “loro” montagna e la “loro” sfida.
Non farò ora il racconto di tutte le spedizioni, a partire dal 1921, di tutti i tentativi falliti, dei problemi organizzativi e politici: Mick Conefrey, regista, documentarista e scrittore inglese appassionato di alpinismo, lo ha già fatto, riassumendo la vicenda e tutta la preparazione della spedizione vincente in “Everest 1953. L’epica storia della prima salita”.
Ci basti sapere che il mattino del 2 giugno 1953, mentre la Gran Bretagna si preparava all’incoronazione della Regina Elisabetta II, le prime notizie cominciarono a filtrare: la cima dell’Everest era stata raggiunta il 29 maggio dal neozelandese Edmund Hillary e dallo Sherpa Tenzing Norgay. Una grande vittoria, un esempio di spedizione perfettamente pianificata? Secondo Mick Conefrey non fu esattamente così. Nel libro infatti ci rivela tutti i retroscena, le crisi e le polemiche che accompagnarono la spedizione. Anche se tutto ciò non fa che esaltare ancor di più la spedizione guidata da John Hunt che, per avere successo, dovette far ricorso a capacità inimmaginabili e a tutta la determinazione possibile. Ed è questa la parte del libro che preferisco. Ma questo libro è anche un omaggio ad alcune personalità molto spesso dimenticate dal racconto ufficiale, come Eric Shipton, l’enigmatico “Mr Everest”, e Charles Evans, che si sacrificò a 100 metri dalla vetta per dare a Hillary la possibilità di riuscire.
Grazie alla sua ricerca tra le lettere, i diari e i ricordi dei protagonisti di allora, Conefrey è riuscito ad entrare profondamente nell’animo degli alpinisti e a rispondere a domande che da tempo tormentano gli appassionati di montagna: perché a Eric Shipton fu a un certo punto tolta la leadership della spedizione? Chi mise piede per primo sulla cima: Hillary o Tenzing?

Oggi migliaia di alpinisti possono raccontare di essere stati sul “tetto del mondo” e oltre 200 di loro hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere la vetta più prestigiosa. Si tratta perlopiù di spedizioni numerose, che movimentano tonnellate di materiale per alimentare i campi base e si avvalgono delle tecnologie più avanzate per rispondere alle sfide poste dalle quote estreme.
Ma nel 1978, nel corso della quattordicesima spedizione sull’Everest, promossa dall’Austria, due alpinisti arrivarono sulla cima per la prima volta senza utilizzare le bombole di ossigeno. Erano l’italiano Reinhold Messner e Peter Habeler.
Due anni dopo, giusto 40 anni fa, Reinhold Messner compie un’altra impresa: il 20 agosto 1980, in piena stagione monsonica, raggiunse in solitaria la vetta dell’Everest. Passato per il versante nord, su cui aprì una variante alla via normale, lo scalatore sudtirolese impiegò quattro giorni per scalare la montagna facendo affidamento unicamente sulle proprie forze.

Messner torna su quella sfida con un libro in cui la racconta in prima persona: “Everest solo. Orizzonti di ghiaccio”. Per lui non si trattava del primo ottomila in solitaria: sempre nel 1978 aveva già scalato in questo modo il Nanga Parbat, nona vetta del pianeta, dove nel 1970 aveva perso il fratello Gunther. Per gli alpinisti del periodo pensare di salire una montagna di ottomila metri in solitaria è qualcosa di estremamente pericoloso, molto più che tentare di farlo senza bombole. Solo una persona ci aveva provato prima di Reinhold: Maurice Wilson, aviatore e alpinista britannico, che nel 1934 si è cimentato sull’Everest lasciandoci la vita. Non a caso Wilson, insieme ad altri leggendari alpinisti come George Mallory e Andrew Irvine, entra nel racconto, accompagnando quasi l’alpinista italiano nella sua ascensione. Nel libro Messner riflette sulle motivazioni che spingono a scalare gli ottomila metri e le condivide con i lettori, assieme alle pagine del diario della sua compagna di viaggio, Nena Holguin, che seguì dal campo base la sua incredibile avventura.
Un altro stile, rispetto alle grandi spedizioni. Poco prima di partire dal campo base, i pensieri di Messner sono semplici e complicati insieme:
“Così come ho atteso il bel tempo, aspetto le migliori condizioni fisiche. La natura umana e il cosmo mi prescrivono il ritmo di vita. Io posso prevedere tutto e niente. La scalata solitaria che ho pianificato resta un mistero come la vita, imprevedibile, rischiosa, spesso dipendente dal caso, e anche illogica. Sarebbe stupido tentare di schematizzare. Una solitaria sull’Everest non è un problema di aritmetica.”

Mick Conefrey: “Everest 1953. L’epica storia della prima salita”, edizioni Corbaccio, collana Exploits, traduzione di Paola Mazzarelli e Gianfranco Petrillo, 2013, pp. 333, € 19,90
Reinhold Messner: “Everest solo. Orizzonti di ghiaccio”, edizioni Corbaccio, collana Exploits, 2020, pp. 208, € 19,90