Matteo Salandri, il naufragar m’è dolce su queste onde
di Nando Aruffo
Intervista a un ragazzo che si è trovato subito la vita in salita, che ha trovato nello sport motivo di gioia e di spensieratezza, che mette la sua esperienza al servizio del prossimo.
“Quando avevo tredici anni ho iniziato a prendere l’autobus, a Roma, per andare da casa, alla Giustiniana, al campo della Farnesina. Non riuscivo a distinguere il numero dell’autobus e chiedevo. Spesso mi rispondevano: Ma che non lo vedi? Da quel periodo ho cercato di fare sempre da solo. Ho cambiato fermata, andavo a una dove si fermavano soltanto due autobus: il 201 e il 301. Il 201 percorre tutta la Cassia; il 301, il mio, arriva da Grottarossa. Dalla fermata, con un piccolo binocolo, guardavo l’incrocio: se girava, era il mio. Da allora ho sempre cercato piccole strategie per fare da solo, per essere autonomo. Ma non vorrei si travisi un concetto fondamentale: è importante chiedere aiuto senza vergognarsi. Tutti abbiamo bisogno di chiedere aiuto a prescindere dal una disabilità”.

Matteo Salandri, 32 anni, è ipovedente dalla nascita. Nato con un glaucoma congenito, il suo deficit visivo si rivela subito grave, sin da bambino distingue soltanto luci e ombre. Però, come dimostra l’aneddoto dell’autobus, non si atteggia a vittima, non pretende che sia accudito h24 ma adotta una serie di “strategie e stratagemmi” per essere via via sempre più autonomo. Attualmente va in giro affidandosi al suo cane guida, Yashi.
Studia, si laurea in giurisprudenza alla Sapienza Università di Roma, lavora, pratica sport. Si allena di solito a Santa Marinella, è tesserato per la società Banzai Sporting Club. Quest’anno avrebbe dovuto partecipare al World Adaptive Surfing Championship, il campionato del mondo, poi il Covid-19 ha costretto anche lui a chiudersi in casa. Nell’immediato sta pensando di andare a effettuare qualche allenamento in Sardegna, lungo la costa occidentale dove ci sono migliori onde. Visto che riesce anche a praticare surf, vuol dire che le sue strategie d’autonomia sono infinite. Scegliere di praticare il surf, poi, ha un che di sfida estrema.
Perché il surf?
In realtà è stata una riscoperta. A 12 anni facevo un gioco in acqua che mi piaceva: il bodyboard. Si cavalca l’onda sdraiati di pancia su una tavola, appunto il bodyboard, l’hanno inventato i polinesiani. Un giorno presi in pieno una persona: mi spaventai, pensavo di avergli fatto male e ho abbandonato. Due-tre anni fa, navigando sui gruppi Facebook tematici ho letto che a Fuerteventura, isola delle Canarie, cercavano una persona con disabilità visiva e io che ho sempre voglia di provare cose nuove, ho fatto la valigia e sono partito.
Visto dalla terra ferma il surf sembra uno sport anche pericoloso; per te che sei persona con disabilità visiva mi sembra uno sport estremo. Sbaglio?
Sì, il surf è visto come sport estremo, in realtà dipende da come lo vuoi fare. Secondo me lo possono fare tutti. Poi preciso un aspetto: sono nato ipovedente ma con il peggiorare della mia condizione ora sono considerato non vedente. Posso fare una battuta? Per una persona con disabilità è più pericoloso (dove per pericoloso non s’intende città poco sicura per aggressioni o similari ma ostacoli imprevedibili) andare in giro per Roma.
Anche nel surf ci sono categorie a seconda della disabilità?
Sì. C’è una categoria per chi non ha l’uso delle gambe o chi ha dovuto subire l’amputazione degli arti inferiori e gareggia sdraiato sulla tavola, prono. C’è una categoria per chi è cieco o ipovedente come me e poi c’è la categoria per chi non ha le braccia. C’è una ragazza amputata del braccio sinistro, perché a 13 anni fu morsa da uno squalo. Lei è diventata professionista, di un livello così alto che ha continuato a fare anche gare con normodotati.

Chi ha un deficit importante ha bisogno di una guida, vero?
Impossibile fare surf da solo, hai bisogno di una persona al tuo fianco. Sta sulla sua tavola e ti dà comandi vocali. Solo comandi, non ti può toccare. La guida ti porta fino al picco dell’onda, ti posiziona, tu senti la spinta dell’onda e da quel momento vai da solo. Non ho una guida fissa, neanche a Santa Marinella dove mi alleno.
La tua ambizione?
Se si fossero disputati i Giochi Olimpici a Tokyo, avremmo assistito al debutto del surf. Lo farà l’anno prossimo e io spero tanto che nel 2024 diventi sport Paralimpico. Per un atleta il massimo è partecipare ai Giochi Olimpici. Però nel surf il concetto di competizione è diverso: la vera competizione (ma competizione forse non è termine giusto) è tra te e il mare. È l’emozione di quello che riesci a ricevere dall’onda. La mia ambizione è vivere le stesse sensazioni in tanti posti del mondo.
Hai subito umiliazioni da bambino per la tua menomazione? Sei stato vittima di scherzi feroci da parte dei tuoi amici?
La risposta è no, però dipende anche dal carattere. Ci sono stati momenti in cui cominciavo a capire che avevo una diversità (per altro tutti abbiamo una diversità, ognuno di noi è diverso dall’altro), in particolare che mi mancasse qualcosa rispetto agli altri e questa menomazione per me non è mai stato un peso.
Alle elementari non è mai stato un peso, era normale che Matteo avesse bisogno dell’insegnante di sostegno. Alle medie – periodo scolastico particolare per tutti, l’adolescenza non fa sconti a nessuno – era più palese che avevo esigenze diverse ed è stato il periodo in cui ho preso coscienza che avrei dovuto fare cose diverse. Al liceo non ho mai avuto problemi d’inclusione. Però, ripeto, molto dipende da te. Forse ero io a fare il bullo con i miei amici e compagni di classe.
Se ti ha aiutato, quanto ti ha aiutato lo sport?
Lo sport mi ha aiutato assolutamente, mi ha dato le spinte per essere sempre più indipendente. Da bambino non potevo ovviamente praticare sport con la palla. Ho provato con il nuoto ma dopo un po’ ho scoperto che mi annoiavo così sono passato all’atletica leggera. L’ho praticata dai 12 ai 26 anni: 100, 200, 400 e 800 metri: ho vinto qualche campionato italiano e nel 2009 ho anche vestito la maglia azzurra agli Europei. Lo sport riesce a trasformare il tuo svantaggio in un vantaggio. Per una persona disabile lo sport è un grande strumento di inclusione; lo sport a volte è molto efficace, penso che le persone con disabilità debbano essere incentivate a praticare lo sport. Lo sport mantiene il benessere psicofisico; può aiutare il servizio sanitario nazionale nella prevenzione di qualsiasi situazione non positiva. Bisogna superare l’approccio assistenzialistico e fare investimenti mirati per rendere più autonoma la persona con disabilità. Lo sport deve far parte della quotidianità di tutti, non soltanto delle persone con disabilità: nella frenesia del lavoro quotidiano noi snobbiamo lo sport ma questo va a nostro discapito.
E il lavoro?
Lavoro a RFI, Rete Ferroviaria Italiana, società delle Ferrovie dello Stato. Mi occupo dell’accessibilità dei trasporti, l’abbattimento di barriere architettoniche in ambito ferroviario . Sono felice di poter dire che svolgo un lavoro che mi piace e per il quale ho studiato. Il mondo dei trasporti mi ha sempre affascinato: dopo la laurea mi sono iscritto al MEMIT (master in economia e management in infrastrutture e trasporti) e prima della laurea ho trascorso il mio Erasmus a Utrecht, in Olanda. Prima volta da solo, lontano da casa, all’estero. Esperienza bellissima e formativa.
In questo modo, a RFI, puoi mettere la tua disabilità anche al servizio del prossimo.
Sbagliato ridurre tutto alla mia persona. Le varie disabilità hanno esigenze diverse: non basta essere persona con disabilità per capire tutto. Un sordo ha un certo tipo di problema, il cieco un altro, non parliamo poi di disabilità intellettiva. Un gradino per me non è un problema, per chi utilizza una sedia a ruote è un problema. Penso, anche, che negli ultimi anni molto è cambiato per noi persone con disabilità visiva. Penso che potevamo leggere un libro soltanto se stampato in braille, oppure ascoltato con un’audiocassetta. Adesso il processo di digitalizzazione ha reso tutto più facile. Un computer o uno smartphone e tutto è più facile. È un problema di conoscenza: conoscenza più accessibile significa aumentare la capacità di consapevolezza.
Qual è uno degli ostacoli più gravi per una persona con difficoltà visive come te?
Le barriere senso-percettive. Mi spiego: le biciclette ed i monopattini parcheggiati – ma direi abbandonati – in mezzo a un marciapiede o a una pista ciclopedonale. Il monopattino è già di per sé un ostacolo per normodotati; immaginate cosa possa essere per gli ipovedenti o per una persona cieca. Sarebbe importante che tutti i semafori abbiano avvisi sonori. Non bisogna pensare di risolvere tutto con la mobilità sostenibile, bisogna pensare anche alla sostenibilità sociale. Occorre una disciplina anche per questo aspetto della nostra vita quotidiana: fare qualcosa per rendere sicuri i percorsi pedonali e ciclabili sia per coloro che corrono sia per coloro che devono attraversarle.
Detto che la sicurezza è un principio che sta a cuore a tutta Sportopolis.it, salutiamoci con tuo difetto e un tuo pregio.
Li unisco: i miei traguardi diventano punti di partenza.
Grazie a Simone Corbetta che ha avuto l’idea di questa intervista. Grazie a Matteo Salandri: ipovedente dalla nascita per un glaucoma, dai 12 ai 26 anni ha praticato l’atletica leggera; negli ultimi anni ha scoperto il surf; a Sportopolis.it ha regalato lezioni di civiltà. Grazie a Giacomo Leopardi e il suo “L’infinito” per il titolo.
