Mallory & Irvine: il mistero della conquista dell’Everest
Cento anni fa la spedizione inglese che potrebbe aver raggiunto la vetta. Ma i ritrovamenti di questi ultimi anni non risolvono l’enigma.
di Sergio Gh. Azzoni *
Premessa: qui si parla di sport nell’accezione più filologicamente precisa, nel senso più british, e più Novecentesco. Come un fenomeno della modernità visto dalla posmodernità. Causa predominio di pseudogiornalismo “social”, il 2024 ha lasciato passare quasi ignorata un’effemeride gloriosa. Il mistero per eccellenza dell’alpinismo. Quello dei fantasmi dell’Everest.
Era l’estate 1924 quando due englishmen, l’oxfordiano George Leigh Mallory e il più giovane Andrew Comyn Irvine (fresco di Cambridge) perirono in due punti diversi sul versante Nord del Chomolungma-Sagarmatha: per intenderci, l’Everest. Il cannocchiale del capitano Noel Odell, altro membro della spedizione, li scorse un’ultima volta su uno dei tre “gradini” della cresta NordEst, mentre, in parole di Odell, “proseguivano spediti verso la cima”. Poi i due scomparvero per sempre tra le nubi. Abbiamo già citato l’impresa su queste pagine, ma vale la pena approfondire.

Giusto venticinque anni fa il nordamericano Conrad Anker, membro della Spedizione di ricerca M&I ‘99, s’imbattè nel cadavere di Mallory, la cui foto fece il giro del mondo: un corpo ben conservato, seminudo per il degradarsi dei tessuti dell’epoca, aggrappato in posizione prona alla parete, le mani affondate nel suolo come nel tentativo estremo di frenare una lunga caduta, una tibia spezzata “protetta” dall’altra gamba, elegantemente accavallata sulla prima. Ma dopo quell’affascinante ritrovamento, la storia della scalata di M&I ricadde nell’oblìo. E a tutt’oggi il quesito rimane questo: sir Edmund Hillary e Norgay Tenzing furono sì, nel 1953, i primi uomini a ritornare vivi dalla fatidica quota 8848 della vetta (raggiunta dal versante sud, quello nepalese); ma furono anche i primi a raggiungerla? Mallory e Irvine (o uno solo dei due) non ce la fecero? Si può affermarlo oltre ogni ragionevole dubbio?
La tesi prevalente negli ambienti dell’alpinismo si è consolidata nel tempo in questi termini: M&I lottarono forse fino a un suicidio deliberato, ma non ce la fecero. Il che, alla luce delle ricerche di altri meticolosi esperti come il tedesco Jochen Hemmleb, è però una conclusione perlomeno ingenerosa ove la si pretenda definitiva. In un senso e nell’altro, indizi ce ne sono moltissimi. Prove certe, zero.
Questa è una storia di gradini visibili e invisibili per i capricci delle nubi, di calcoli sul consumo dell’ossigeno in bombole vuote o semivuote riapparse in varie epoche, di tempi di arrampicata in cordata e in “libera”, di appunti autografi di Mallory, di ipotesi sul destino di una sua fotocamera Kodak, che il cadavere dell’eroe non aveva più addosso, e che sarebbe stata rinvenuta (voce mai confermata) già negli anni 60 da una spedizione cinese e la cui pellicola, sviluppata a Pechino, non avrebbe rivelato nulla.
Il 2024, anno del centenario, ha regalato un altro pezzo del puzzle: uno scarpone (con resti di piede incluso) di “Sandy” Irvine, restituito dai ghiacci lungo il Grand Couloir, l’enorme canalone che spacca in due la parete Nord. Ma questo reperto fa ritenere solo che Irvine possa essere caduto “da più in alto” rispetto al compagno. Ma in fase di salita o di discesa? E, se in discesa, da quale punto estremo? E Mallory, quando cadde, scendeva da vinto o da vincitore?

L’opera fondamentale su questa affascinante storia rimane il libro scritto a 4 mani dai promotori della Spedizione di ricerca 1999: Jochen Hemmleb, Larry Johnson e Eric Simonson, con il ghost-writer William E. Nothdurft. Mai il concetto di scrittore-fantasma fu più opportuno. Come pure il titolo originale del libro: Ghosts of Everest. Nomen omen. Per chi ama la montagna e per chiunque coltivi lo Sport colla S maiuscola, un autentico “must”.
* giornalista e viaggiatore (Bergamo, 1963)
autocommento: a prescindere da chi ne discuta e la sua maggior o minor autorevolezza (in questo caso diciamo credibilità o meno), più ci penso e più questa vicenda è avvincente. anche vista dall’era del no-oxygen climbing. si parla del 1924: l’era degli scarponi di cuoio ingrassato e dei maglioni di lana, non so se s’è resa l’idea…
ma l’homo sapiens-sapiens già correva i 100 metri in 10 secondi e poco, intendiamoci. anche per questo vien da dire: perché non dovrebbero avercela fatta? perché noi non ci crediamo: tutto qui.
😉
s.gh.
Caro Sergio, Mallory e Irvine non hanno certamente raggiunto la vetta perché la loro era un’impresa sportiva, non una conquista militar-nazionale. Gli ottomila sono stati lottizzati dalle potenze coloniali e conquistati con spedizioni ricche di mezzi e attrezzature: Everest agli inglesi, K2 agli italiani, Nanga Parbat ai tedeschi, Annapurna ai francesi e così via. Mallory e Irvine sono gli antesignani di Bonatti e Messner e quindi fuori da questa logica, che, se ti interessa approfondire, ho descritto in questo articolo sulla conquista del K2: “Quel pasticciaccio brutto della conquista del K2”. Quindi, forse, la vetta l’hanno raggiunta davvero, ma non bisogna dirlo troppo in giro…
Un caro saluto
Gigi
òstrega gigi, hai citato l’Orso Sacro! 🙂 ma non lo sai che tutto quel che non ha fatto Lui, o non va bene, o non è stato fatto affatto?
scherzi a parte: mi son proprio goduto la tua “via merulana al Chogori” e spero di potermi presto sedere con te a discettare di montane e mondane cose. che poi, a ben guardare, s’assomiglian tutte moltissimo! ciao e a presto! s.gh