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La Montagna del Destino

“Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi”
Walter Bonatti

di Gigi Marchitelli

Il colonialismo europeo e delle grandi potenze è formalmente finito nella seconda metà del XX secolo ed è stato un fenomeno decisamente complesso. La conquista delle grandi vette della Terra, per esempio, in particolare i 14 “ottomila”, ne è stato un aspetto, che piaccia o meno. Gli inglesi si riservarono il tetto del mondo, com’è noto, anche se il suo conquistatore era neozelandese; all’Italia, patria delle Alpi e dell’alpinismo, il K2 (e sicuramente ci torneremo); ai francesi il Makalu e l’Annapurna; qualcosa alle altre nazioni alpine, qualcosa alle grandi potenze (Gasherburm I agli Stati Uniti, il Shisa Pagma alla Cina: l’Unione Sovietica invece non è mai entrata in questo gioco, al loro posto “giocavano” i polacchi, specialisti di prime invernali).
E ai tedeschi? Ai tedeschi, fin dagli anni ’30, la Montagna del Destino, il Nanga Parbat. Poco importa l’effettiva nazionalità degli scalatori, senza poi contare che il grosso del lavoro è sempre stato fatto dagli sherpa nepalesi o pakistani: erano gli Stati che organizzavano gigantesche spedizioni, attrezzate con tonnellate di materiale, ingaggiando una vera e propria conquista in stile militare. I tedeschi inviarono almeno cinque spedizioni nel corso degli anni ’30, tutte fallite e con un bilancio di 31 morti. Una di queste fu bloccata dall’inizio della seconda guerra mondiale ed è all’origine della vicenda narrata in un altro film, “7 anni in Tibet”. Circa il 28% degli alpinisti che hanno tentato l’impresa non sono tornati: è la seconda montagna per indice di mortalità dopo l’Annapurna e per questo è detta anche “the killer Mountain”, “la montagna assassina”.

Scusate la lunga premessa, ma il film che ho visto questa settimana, e di cui parliamo ora, ha come sfondo proprio una spedizione di questo tipo e ci racconta, drammaticamente, la nascita di un nuovo approccio all’alpinismo delle grandi vette. Ma questo è solo uno dei livelli di lettura di “Nanga Parbat”, film di  Joseph Vilsmaier del 2010 che, dichiaratamente, assume il punto di vista di uno dei protagonisti della scalata che mette in scena: quello di  Reinhold Messner. Il film è ambientato nel corso della spedizione tedesca del 1970 guidata da Karl Maria Herrligkoffer (Karl Markovics), che aveva organizzato altre sei spedizioni sulla stessa montagna, compresa quella della prima ascensione, compiuta dall’austriaco Hermann Buhl nel 1953.
La particolarità di questa nuova spedizione è il tentativo di scalare il versante sud-sudest, la parete Rupal, estremamente scoscesa, che scende con pendenza elevata e costante per circa 4.500 m. fino al sottostante fondovalle. Si tratta della parete montana più alta del mondo. Della spedizione fanno parte alcuni alpinisti tedeschi, alcuni austriaci e due fratelli italiani, i sudtirolesi Reinhold e Günther Messner, interpretati da Florian Stetter e Andreas Tobias.

Il film racconta una delle più stupefacenti imprese di Reinhold Messner e insieme quella che gli causò in assoluto il dolore più grande: la perdita del fratello Günther. È una grande storia di montagna e di vita. Anzi è una storia di straordinario alpinismo su una montagna mitica, dove le vicende personali dei due fratelli e il racconto della spedizione si intrecciano per farci capire come nasce il diverso approccio di Reinhold alle scalate anche più impegnative.

E arriviamo al 27 giugno del 1970. Quel giorno Reinhold doveva essere da solo in vetta al Nanga Parbat. Così non fu. Günther, il fratello, di sua iniziativa lo seguì e lo raggiunse poco sotto la cima. Erano senza corda e senza materiale da bivacco. Una vera “follia”, lo sapevano entrambi. Stavano oltrepassando le loro colonne d’Ercole. Raggiunsero la vetta completando per la prima volta la scalata della mastodontica parete Rupal e realizzando la terza salita assoluta della montagna. Un’autentica impresa che da qui in poi si trasformerà in tragedia.

Quello che successe dopo tutti gli alpinisti lo sanno. Fu un’odissea inenarrabile. Basti dire che ci vollero altri due giorni perché Reinhold ritornasse alla vita, alla base della montagna. Ma era da solo. Lui e Gunther avevano preso una decisione impossibile, l’unica che nelle condizioni in cui si trovavano potevano prendere. Erano scesi per lo sconosciuto versante Diamir. Così avevano compiuto anche la prima traversata di un Ottomila. Un’impresa nell’impresa. Una cosa incredibile. Ma appunto era solo, più morto che vivo, distrutto dalla morte del fratello e nessuno poteva aiutarlo…

Fermiamoci qui. Il film va visto e vissuto. Soprattutto perché nella pellicola il racconto di quei momenti intensi e tragici s’intreccia con il prima e anche il dopo. Ma è anche una storia “universale” proprio perché il film parla delle scelte, che sempre vanno fatte, e della necessità di essere consapevoli delle conseguenze che portano in sé. Parla della ricerca continua di un equilibrio difficile, a volte quasi impossibile. Quello stesso equilibrio che Reinhold Messner, con il suo alpinismo, ha esplorato per tutta la vita, assumendosene ogni volta le responsabilità. Anche per questo Nanga Parbat è un film da vedere, perché racconta un alpinismo che, con le sue luci ed ombre, ci aiuta ad andare oltre quel “destino” che ci può schiacciare.

P.S. Le grandi spedizioni con tonnellate di materiale esistono ancora. Solo, non sono più spedizioni “nazionali”, ma “commerciali”, volte a portare sulle cime più impegnative del pianeta clienti ben paganti. Meno male, il colonialismo non esiste più, viva il libero mercato…

“L’uomo da solo, non in lotta con la montagna, ma con lei impegnato in un dialogo profondo. Questo è il mio modo di vedere l’alpinismo.“

“Bandiere sulle montagne non ne porto: sulle cime io non lascio mai niente, se non, per brevissimo tempo, le mie orme che il vento ben presto cancella.“
Reinhold Messner

Nanga Parbat di Joseph Vilsmaier
Nazione: Germania
Anno: 2010
Genere: drammatico, sportivo
Durata: 104′

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