Campriani regala un sogno ai ragazzi rifugiati
di Chiara Aruffo
È il 2016 ai Giochi Olimpici di Rio, la finale è quella della carabina 50 metri 3 posizioni. Niccolò Campriani è convinto d’aver vinto la medaglia d’argento, perché ritiene impossibile che il russo Sergey Kamenskiy, già in testa e fortissimo, possa sbagliare. E invece il russo sbaglia: per Niccolò arriva una medaglia d’oro talmente inaspettata da far scattare qualcosa, quasi una “sindrome dell’impostore”. Decide di donare all’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) la differenza del premio tra oro e argento e si lancia in una nuova impresa: allenare dei rifugiati in vista delle Olimpiadi di Tokyo, ovvero il progetto Make a Mark. Khaoula, Luna e Mahdi sono i tre protagonisti e stanno lavorando per guadagnare un pass olimpico per Tokyo. Niccolò, oggi Senior Sports Intelligence Manager del CIO, li allena e li accompagna in questo viaggio che va oltre lo sport e ha già in qualche modo cambiato le loro vite.

- Lei, campione olimpico, ha voluto lanciare un messaggio forte. Ma perché proprio i ragazzi “rifugiati”? A Rio, oltre ad averli visti sfilare alla cerimonia di apertura, ha avuto anche la possibilità di vederli gareggiare?
L’idea di costruire un progetto con e per i rifugiati nasce dal mio legame con l’UNHCR e all’esperienza che ho avuto modo di fare con loro in Zambia. È una questione di sensibilità personale e ritengo che lo sport sia uno strumento molto efficace per mandare messaggi di inclusione. Un atleta ha un doppio senso di appartenenza e vive una sorta di dualismo quando è ai Giochi Olimpici: da una parte c’è il nazionalismo e dall’altra l’intera comunità dello sport. Che poi in fondo è proprio questa l’idea del movimento olimpico: tutti danno importanza alle medaglie ma le Olimpiadi sono l’unico evento in cui persone provenienti da 206 Paesi condividono il pranzo sotto lo stesso tetto. Ho probabilmente più cose in comune con un tiratore che con uno staffettista italiano. Una finale olimpica è in un certo senso un’esperienza traumatica e viverla insieme unisce molto, infatti sono ancora in contatto con i miei avversari.
- Avete effettuato le selezioni tra ragazze e ragazzi che non avevano mai imbracciato una carabina. Immagino che molti di loro abbiano vissuto in prima persona anche episodi di guerra, quindi avessero un’idea ben precisa di cosa sia un’arma. Avete fatto fatica a far capire loro che un’arma possa essere anche un attrezzo sportivo?
Associare una carabina di tiro a segno a un’arma dura più o meno 15 minuti, il tempo di rompere il ghiaccio. Ti accorgi subito che è tutta una questione di gestione del respiro, di controllo dei muscoli: vince chi è più zen. La carabina vista così diventa uno strumento sportivo. Un altro fattore importante di questa disciplina è che riesce a far superare lo stigma della psicoanalisi. Lo psicologo per noi è come il fisioterapista, un aiuto per migliorare la propria performance proprio come preparatore atletico. Avere uno psicologo offre un’occasione ai nostri ragazzi di parlare della propria vita.

- Qual è il ruolo del CIO in questo progetto più in generale?
Quello che ho fatto io lo poteva fare chiunque e lo faccio nel mio tempo libero: non è necessario avere particolari legami con il CIO. In realtà non abbiamo neanche chiesto il supporto del CIO, proprio per dimostrare la sostenibilità del progetto. Il CIO ha poi deciso di seguire la nostra storia e promuoverla tramite la produzione del documentario Taking Refuge: Target Tokyo 2020. Una delle nostre ragazze, Khaoula ha una borsa di studio del CIO nell’ambito del programma di supporto ai rifugiati, mentre Luna e Mahdi no. Il progetto, quindi, è più ampio e non esclusivamente legato al CIO.
- In questa avventura lei si avvale di quattro collaboratori: Abhinav Bindra, Juan Carlos Holdago, Gonzalo Barrio e Irina Gladkikh. Come li ha scelti e che ruolo hanno?
Sono amici, alcuni anche provenienti da sport diversi. Juan Carlos, ad esempio, è un ex-atleta spagnolo di tiro con l’arco. Abhinav è stato un mio compagno di allenamento ed entrambi ci siamo ritirati dopo Rio. È l’unico indiano ad aver vinto una medaglia d’oro individuale alle Olimpiadi e mi ha aiutato molto organizzando una raccolta fondi e mettendoci a disposizione la sua struttura in India. Irina e Gonzalo sono due colleghi del CIO e ci aiutano nel tempo libero.
- Per quanto riguarda la qualificazione olimpica Mahdi ha già superato il punteggio minimo per essere ammesso ai Giochi Olimpici; Khaoula e Luna ci sono andate vicino. Pensa che anche loro due possano raggiungere il punteggio minimo? Che possibilità hanno poi di ottenere una carta olimpica?
Può entrare a far parte della squadra olimpica dei rifugiati chi ha ottenuto lo status di rifugiato dall’UNHCR. Luna e Khaoula ce l’hanno; Mahdi no. È nato in Afghanistan e cresciuto in Iran, ma non aveva nessun documento se non un permesso svizzero. Il primo passo per lui è stato quello di ottenere un passaporto afgano e ora è libero di muoversi: per lui questa esperienza va oltre il lato prettamente sportivo. In quanto alla qualificazione olimpica, Mahdi gareggerebbe per l’Afghanistan e potrebbe rientrare tra i posti assegnati dalla Commissione Tripartita per promuovere l’universalità nello sport. Luna e Khaoula, in caso, dovrebbero essere nominate dall’Executive Board del CIO per entrare a far parte del team dei rifugiati. A bocce ferme ne è valsa la pena. Per la parte sportiva spero che uno dei tre possa essere selezionato. Poi una volta là, non andremo per finire in fondo alla classifica.
- Il rinvio dei Giochi Olimpici ha agevolato la maturazione sportiva dei tre ragazzi oppure, al contrario, ha abbassato la loro concentrazione?
Hanno tutti mantenuto alta la concentrazione. Il rinvio ci ha dato un anno in più ma ci manca l’esperienza di gara: si rischia d’arrivare a Tokyo come prima gara della stagione e noi invece abbiamo bisogno di crescere nella parte emotiva di gestione della gara. Con gli Europei in Finlandia cancellati sto cercando gare locali per limitare spostamenti, probabilmente ne faremo una a fine marzo in Svizzera e poi spero altre ad aprile e maggio. Inoltre, il rinvio di un anno ci ha dato la possibilità di reintegrare Luna in squadra dopo la gravidanza. È più disciplinata adesso, è la prima ad arrivare allenamenti e ha già chiuso il gap con Khaoula e Mahdi. Il marito la aiuta e fa il baby sitter, ci dà una grande mano in questo senso.
- Come ha gestito il blocco dell’attività sportiva e degli allenamenti a causa del Covid-19? Immagino che non ci si possa allenare in casa sparando alle luci dei lampadari.
Siamo stati fermi due mesi, poi siamo potuti tornare ad allenarci. Al Centro ognuno indossa la mascherina e in ogni caso nel tiro a segno esiste una distanza minima da rispettare tra una linea di tiro e l’altra per non disturbare l’avversario.
- Sul suo sito Make a Mark lei incoraggia atleti di livello internazionale di tutti gli sport olimpici, estivi e invernali, a fare volontariato per portare avanti questo progetto con le comunità locali di rifugiati e richiedenti asilo. Ha già avuto risposte positive? Può fare qualche nome?
Ho ricevuto tanti apprezzamenti, ma ancora nessuno che si sia fatto avanti in maniera concreta. Dopo i Giochi di Tokyo mi metterò alla ricerca di un sostituto a cui passare il testimone, guardando anche ad altri sport.
- Sempre restando nel tema di un altro sport: lei è stato anche di supporto al tiro per il biathlon. Ci può parlare di questa esperienza?
Credo molto nei punti di contatto tra sport diversi: io stesso nella mia carriera sono andato a cercare aiuto e motivazione in posti non scontati. Per quanto riguarda il biathlon, abbiamo lavorato insieme sulla posizione di tiro e sulla parte dei materiali. I materiali sono di fondamentale importanza per noi in quanto il bersaglio è molto piccolo, per loro specialmente quando si tratta di tiri sul bordo. Il tiro perfetto non esiste, ma si può lavorare sulla balistica e sull’efficacia del gesto. Per chi viene dal tiro a segno, le condizioni di tiro di un biathleta sono estreme, possiamo imparare tanto anche noi da loro. Le sinergie ci sono e sono molto interessanti, nello sport ma anche nella vita bisogna guardare oltre e non lavorare in silos.
Grazie a Niccolò Campriani per la disponibilità. In bocca al lupo a Luna, Khaoula e Mahdi a cui auguriamo di poter realizzare il sogno di partecipare alle Olimpiadi.
Il documentario Taking Refuge è disponibile sul sito di Olympic Channel: clicca qui per guardarlo.
Foto di copertina: Olympic Channel