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Cosa è cambiato nel rugby italiano

Nove cucchiai di legno di fila, poi un Sei Nazioni come ce lo sognavamo da tempo: perché?

di Gigi Marchitelli

“Il miglior Sei Nazioni di sempre per l’Italia”, prendo un titolo a caso dai giornali della settimana. Ed è veramente così, due vittorie, un pareggio, la partita d’esordio contro i “maestri” inglesi dove siamo stati battuti di misura, 24 a 27 (“maestri” in cosa? Nel football non proprio, nel cricket da decenni hanno ceduto il titolo alle ex colonie, nel rugby il sud del mondo domina i mondiali, vedi la finale della scorsa Coppa del Mondo tra Nuova Zelanda e Sudafrica)… Solo l’Irlanda – una delle squadre più forti al mondo in questo momento – ci ha “asfaltati” con un perentorio 36-0. Ma avevamo visto di peggio, negli anni passati.

Allora, dobbiamo gridare al miracolo? No, direi invece che questi risultati sono stati perseguiti con determinazione, seguendo un percorso di cui possiamo enumerare fino ad ora due tappe e che probabilmente non è ancora concluso.

La prima tappa è il lavoro che ha fatto negli scorsi anni Kieran Crowley, a partire dal 2021 e fino alla Coppa del Mondo dello scorso anno. Il tecnico neozelandese non ha ottenuto grandi successi (alcune vittorie sì, però, compresa una di peso contro l’Australia) ma  ha lavorato innanzitutto a un cambio di mentalità radicale per quanto riguarda l’interpretazione del gioco offensivo da parte della squadra, sviluppando un avanzamento ritmico, frizzante, imprevedibile, che punta sul talento dei nostri tre quarti e che si mostra sempre ambizioso, in ogni zona del campo. I risultati non sono arrivati perché è mancata in parte l’organizzazione del gioco, che risultava un po’ caotico e arrembante, ma passare a un gioco d’attacco non era affatto scontato, per una squadra che per anni è stata impostata come una squadra di rimessa, incapace di fare la partita e costruita per distruggere il gioco avversario attraverso un logorante gioco al piede e al lavoro di una mischia granitica, considerata a lungo fra le migliori al mondo nelle fasi statiche. La speranza era di orientare i match in maniera tatticamente passiva. Poi, c’è il rinnovamento della squadra, altro merito di Crowley:  gran parte dei giocatori naviga tra i 23 e i 27 anni. Il tecnico neozelandese sul rinnovamento della rosa  (ma anche su tante altre cose, su tutte sulla consapevolezza di potersela giocare con tutti che ha trasmesso al gruppo) ha fatto davvero un lavoro strepitoso. Quello azzurro non è quindi un insieme di giocatori anziani da rifondare, ma una rosa di ragazzi che ha già accumulato, nonostante la giovane età, un buon bagaglio d’esperienza.

Poi venne Gonzalo Quesada. E siamo alla seconda fase, quella attuale e a questo Sei Nazioni che, paragonato ai precedenti, appare quasi miracoloso. Ma non lo è affatto, dato quanto abbiamo detto sopra e quanto ha saputo da subito sviluppare il tecnico argentino (entrato in forze nella Nazionale italiana meno di tre mesi fa). Guardando alle statistiche del Sei Nazioni 2023, l’Italia è la squadra che ha calciato meno, che ha distribuito più passaggi e che è ripartita più volte alla mano dalla propria linea di 22 metri. Numeri interessanti, che testimoniano il coraggio e la creatività della squadra italiana, ma che non si sono tradotti in risultati. La squadra azzurra ha chiuso il torneo dello scorso anno con cinque sconfitte e il maggior numero di mete subite, ventidue. Ripartire dai fondamentali diventa allora una priorità e proprio su questo Quesada ha lavorato nel poco tempo a sua disposizione: sul gioco a terra, sulle touche, sulla compattezza difensiva, sulla battaglia aerea, sulla ricomposizione di una mischia chiusa che negli ultimi anni ha sofferto contro tutti. Insomma, la gestione Quesada riporta l’Italia a una gestione del pallone più conservativa nella propria metà campo, a dinamiche difensive più strutturate e a fasi di gioco statiche contraddistinte da maggiore solidità. Dunque meno creatività e più sicurezza, nella speranza, in questo modo, di potersi mantenere in partita più a lungo e di poter sfruttare il potenziale offensivo, che resta altissimo, in maniera più calibrata e razionale. Inoltre, come abbiamo detto, La Rosa azzurra è stata formata da Crowley guardando ai mondiali del 2027 e si compone quindi di giovani, e che giovani: non a caso Brex e Menoncello, i nostri centri, si giocano la palma del miglio giocatore del Sei Nazioni 2024. Ma sono tanti i nomi azzurri che, nel loro ruolo, aspirano all’eccellenza.

Ecco perché il gioco impostato da Gonzalo Quesada, più ordinato ma sempre pericolosamente offensivo, ha iniziato da subito a dare risultati: e, certamente, conviene tenere basse le aspettative, ma di questa Italia del rugby ho l’impressione che sentiremo ancora parlare a lungo.

Kieran Crowley e Gonzalo Quesada

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