Ciclismo

Il ciclismo di Fabio Felline: correre con i… piedi per terra

Rimasto senza squadra a fine 2024, ha ricominciato dalla squadra che lo aveva lanciato tra i dilettanti

di Nando Aruffo

Pedalare, cadere, rialzarsi, ripartire più forte di prima e rimanere all’improvviso senza squadra. Non è facile prendere atto che il futuro possa essere un grande interrogativo però la vita va avanti e non ti aspetta.

A volte, si accanisce: hai perso il lavoro, la tua famiglia vive un momento difficile, la tua donna perde il suo papà e tu fai fatica a capire cosa fare.

Però la stessa vita, altre volte, quando meno te l’aspetti ti offre un raggio di sole ed è la sua fidanzata Nicoletta a sgombrare i tuoi dubbi: «Se hai la possibilità ritorna nel tuo mondo». Nicoletta è Nicoletta Savio; lui è Fabio Felline ed è impegnato in questi giorni in Italia nelle gare di ciclismo categoria élite.

La storia di Fabio Felline può essere la storia di tanti di noi; la curiosità è che Fabio sia ripartito con la società che lo aveva lanciato nel 2009: allora Unione Ciclistica Bergamasca, oggi MBH Bank Ballan Csb.

Aveva disputato l’ultima corsa da professionista il 20 ottobre 2024 in Giappone, la Japan Cup a Utsunomiya; ha “esordito” con la nuova squadra lo scorso 31 agosto a Kranj in Slovenia.

Fabio Felline, quali emozioni hai vissuto mentre si avvicinava domenica 31 agosto, il giorno del tuo ritorno in una gara a Kranj in Slovenia?

«Mi sarebbe piaciuto partire bene e in effetti ero con i primi e sono stato frenato da una caduta poco prima dell’arrivo. La realtà mi dice che il mio obiettivo sarà il prossimo anno quando potrò disputare una stagione completa. Adesso mi sono rimesso in gioco, per me era la cosa giusta da fare. Ho entusiasmo e voglia di fare, sicuramente mi porteranno a fare qualcosa di buono. Corro con l’ambizione di dare tutto me stesso: per me e per la società che mi ha accolto. Non soltanto partecipare, anche soffrire come soltanto il ciclismo sa farti fare».

La tua assenza dal ciclismo agonistico è durata poco meno di un anno a livello di corse; qualche mese tra la decisione di smettere e quella di ricominciare. Quanto è difficile prendere la decisione di smettere? Ci sono segnali che inducono un professionista a dire basta?

«È stata una decisione obbligata, dettata da dinamiche di squadra. Cose che nel ciclismo possono capitare. Onestamente, averlo saputo a stagione inoltrata mi ha colto impreparato, perché quando mi sono messo a cercare un’altra società non era facile trovare alternative, tutti avevano già gli organici al completo. Mi ha dato molta amarezza smettere di correre, perché il mio 2024 non avrebbe dovuto essere il mio ultimo anno da corridore; ero convinto di poter correre altri due-tre anni. Però ci tengo a dire che con la mia vecchia squadra, la Lidl-Trek, non ho mai avuto problemi e non porto rancore: con Giulio Ciccone mio capitano e con il general manager Luca Guercilena anche oggi ho ottimi rapporti».

Perché sei tornato nella società dove avevi corso nella tua unica stagione da dilettanti, la Bergamasca, chi e cosa ti hanno convinto?

«Tornare non era programmato. Mi ero messo a fare altro. Certo: avevo continuato a uscire in bici anche per tenermi in forma, ho una collaborazione con una casa di abbigliamento. È stata un’occasione nata per caso. Avevo corso con loro da ragazzino per un anno, ci siamo parlati e ho pensato: se questa è la storia e ho ancora voglia di correre, perché non provarci? E poi è una squadra in crescita, adesso ha licenza Continental, l’anno prossimo sarà Professional e se il mio contratto verrà prolungato la mia esperienza potrà essere utile. Questo mi ha convinto a tornare a correre con loro».

La tua carriera è stata costellata di incidenti più o meno gravi. Il più grave di tutti avviene nel 2016 all’Amstel Gold Race: frattura alla base del cranio, intervento chirurgico, lunghi tempi di recupero. Cos’hai pensato in quei tanti giorni d’incertezza e come ci si rimette in bici?

«Dopo l’Amstel ho passato 72 ore senza sapere se avessi potuto tornare a correre. Mi dicevo: “sei fortunato a essere vivo”. Quando ho capito d’essere vivo e di avere la possibilità di tornare a correre, la forza di volontà ha fatto sì che i 45 giorni di convalescenza mi dessero la grinta per tornare. Non vedevo l’ora per tornare ai miei livelli. A Pinerolo mi presentai al Giro d’Italia con il collare, tanta era la voglia di rientrare nel mio ambiente. Per assurdo la mia cattiveria agonistica mi ha fatto tornare più forte di prima».

Vale a dire?

 «Se vai a vedere i miei risultati migliori, sono arrivati tutti dopo un infortunio. Nel 2017 prima del Tour prendo un parassita, toxoplasmosi. Non si capiva come debellarlo, ho impiegato più di un anno per debellarlo. La discontinuità di risultati, il mio problema è stato lì. Nel 2018, dopo il Giro dei Paesi Baschi, altro stop e cure con antibiotici. Nel 2019 buone prestazioni, non risultati di spicco. Il 2020 è stato l’anno del Covid eppure riesco a tornare alla vittoria ed è una vittoria significativa, il Memorial Pantani e posso dire d’essere finalmente tornato quello di prima. Nel 2021 divento papà e a livello psicologico qualcosa cambia dentro di me: metto da parte la prima persona, prendo la mia responsabilità e mi dichiaro gregario. Subisco critiche per questa mia decisione ma a me andava bene così. Nel 2021 ho corso per Vlasov; nel 2022 per Nibali; poi arriva il 2023, l’Astana va in crisi e il mio diventa un anno nero privo di tutto. Il 2024 doveva essere mia rivincita perché mi vuole Ciccone, torno nella Trek dov’ero stato per sei anni però Ciccone si fa male, i programmi saltano e io mi ritrovo in qualche modo a dover ricostruire una posizione senza riuscirci».

La tua famiglia come ha vissuto i mesi di assenza dall’agonismo e come ha preso la tua decisione di ritornare a correre?

«Nicoletta è stata importantissima. Mi diceva sempre: non pensarci, io sono con te. Ed è stata lei a dirmi: se hai la possibilità ritorna nel tuo mondo».

Il tuo mondo è anche il suo mondo: è la figlia di Gianni Savio, figura carismatica nel mondo del ciclismo professionistico, scomparso a dicembre dell’anno scorso. Per voi un periodo difficile tra la sua malattia e la tua situazione.

«Sì, è stato decisamente un periodo complicato. Io senza squadra e lui che stava sempre più male. Mi sarebbe piaciuto tornare a correre di nuovo con Gianni, già mi aveva accolto come corridore nel 2012 e confrontarmi con lui erano momenti sempre importanti. È stata una perdita pesante: per me e per Nicoletta che era sua figlia».

Tu sei uno dei pochi a passare professionista dagli juniores (e non c’erano le squadre sviluppo). Lo rifaresti? E poi, oggi la categoria Under 23 è diventata inutile visti i successi di Pogacar & co?

«Visto come siano forti i giovani d’oggi potremmo anche dire che sia diventata una categoria da riformare ma non lo è. Il ciclismo di oggi va a prendere i ragazzini direttamente nella categoria juniores e credo sia sbagliato questo sistema attuale di ricerca, non della categoria in sé. È un peccato che oggi il corridore di 24 anni si trovi davanti a un bivio, non tutti maturano alla stessa età, per questo si potrebbe pensare a una nuova categoria».

L’ultima domanda è sulla sicurezza, considerando gli incidenti spesso gravissimi (fratture multiple come grandine) e qualcun altro purtroppo anche mortale. Nei giorni scorsi è stata resa nota anche l’iniziativa della Lega del Ciclismo Professionistico, il “Traguardo Sicurezza”. Fermo restando che il ciclismo è uno sport pericoloso di per sé, i tuoi 15 anni di professionismo che cosa suggeriscono?

«Ogni iniziativa sul tema della sicurezza per noi corridori va accolta positivamente. In realtà le strade sono sempre più complicate: dossi, rotonde, spartitraffico: è un controsenso. Il mondo chiede alle auto e alle moto di andare più lentamente; il ciclismo chiede al contrario al corridore di andare sempre più velocemente.

Credo che l’unico sistema per controllare e gestire il ciclismo su strada in termini di sicurezza sia il circuito. Primo, perché il corridore se lo impara a memoria e secondo, perché l’organizzatore stesso può metterlo meglio in sicurezza. Per i vestiti o per protezioni non ci può essere una soluzione: quando sudi devi essere libero, se piove o fa freddo ti devi coprire».

* Fabio Felline, 35 anni, fidanzato con Nicoletta Savio, papà di Edoardo, 4 anni.

È stato professionista per 14 anni e si è ritrovato improvvisamente senza squadra a fine 2024. Dopo il periodo d’inattività è tornato a correre domenica 31 agosto a Kranj e sta partecipando a corse italiane di tutto rispetto: dopo il Gran Premio di Larciano, correrà Giro di Toscana, Coppa Sabatini, Memorial Pantani (da lui vinto per due volte, 2012 e 2020) e Trofeo Matteotti.

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